OTTICA NUOVA PRroFr. VASCO RONCHI



Siccome il rilevamento del terreno e la sua rappresentazione mediante mappe o carte topografiche si ottengono prevalentemente mediante dispositivi - metodi ottici e fotografici, chi si dedica a tale attività comincia col farsi una :ultura base, studiando le nozioni fondamentali dell’« ottica », almeno quelle che 79ì saranno utilizzate nelle applicazioni particolari che interessano.

Questo studio propedeutico dell’ottica ormai vien fatto secondo uno sche ma che si può dire classico e che più o meno si trova ripetuto in tutti 1 testi ii Topografia di tutto il mondo: fino a qualche decennio fa si trattava di una =sposizione assai sommaria e condensata delle leggi dell'ottica geometrica, suf ‘acienti a comprendere il funzionamento di un cannocchiale e dei suoi derivati relle forme utilizzate negli strumenti topografici ; più recentemente l'interes sante sviluppo dei metodi fotogrammetrici ha richiesto anche una preparazione :irca il funzionamento degli obbiettivi fotografici e i procedimenti di sviluppo - stampa.

Tutto quello che si dice a questo proposito, sia per la parte visuale, sla per quella fotografica, è considerato definitivo o pacifico, come si dice. Si ha l’im pressione che si tratti di leggi e regole ormai collaudate da una lunga esperienza = dalla discussione di valentissimi maestri, e quindi superiori ad ogni critica. Si è instaurato così nella generalità delle persone quello stato d'animo che si chiama « fede cieca »; di cui l'esempio più famoso è senza dubbio il fenomeno dell’ipse dixit che dominò l’ambiente filosofico e scientifico del medio evo.

Oggi ci si meraviglia molto a pensare che vi potessero essere delle persone di alto livello, come matematici e filosofi, che di fronte ad un’asserzione aristo telica si rifiutavano di ragionare e di criticare e chiudevano gli occhi della mente e del corpo di fronte ad ogni obbiezione e ad ogni dimostrazione sperimentale contraria. Però non ci si dovrebbe meravigliare tanto se si facesse un po’ di esame di coscienza; perché comportamenti del genere si verificano anche oggi, più di quanto non si creda, e perfino nelle scienze cosiddette esatte. Quello che dirò ne darà una prova.

Ho fatto a bella posta questa premessa, per predisporre l’animo del lettore ad una critica serena e spregiudicata, di concetti e di regole in cui quasi certa mente fino ad ora egli ha avuto piena fiducia. Vorrei evitare che in partenza, sentendo mettere sotto processo certe nozioni, egli chiudesse occhi e orecchi e a priori dicesse: è impossibile che queste cose non siano vere. Vorrei che il lettore




si disponesse alla discussione con la massima serenità e col minimo di precor cetto. Alla fine poi trarrà le sue conclusioni. Se non troverà esauriente la critica e le nuove dimostrazioni, torni pure serenamente alle vecchie concezioni ir cui aveva tanta fede; ma ci ritorni, se potrà, soltanto dopo aver considerato la critica e le nuove dimostrazioni.

Immagino fin da principio l'obbiezione che si presenta: è stata studiata una teoria geometrica, che ci ha reso conto in modo mirabile del funzionament:. degli strumenti che si adoperano nella pratica; non abbiamo mai trovato nes suna discordanza fra teoria ed esperienza; i nostri maestri ci hanno affermat: che da decenni, se non da secoli è stata fatta la stessa costatazione: che cosa si può pretendere di più ? Vale proprio la pena di ferdere del tempo e riesami nare una dottrina ormai così collaudata ?

Ripeto: credo che valga la pena; e credo che chi supererà questo prim> senso di disinteresse per la novità, alla fine se ne troverà contento. Per altre debbo premettere che non mi sarà possibile spingere a fondo la critica su tutt: il campo, perché ciò richiede un volume di dimensioni considerevoli; volume che è già stato scritto da qualche anno e che ha già superato la critica di tutto i mondo ottico. In un articolo come questo, per forza di cose dovrò limitar mi a considerare alcune questioni fondamentali, semplicemente per dimostrar: la necessità di approfondire lo studio, allontanandosi dal procedimento classicc Chi poi troverà interessante e utile il nuovo studio, lo potrà approfondire ir. altra sede. *ok*

Per dare subito al lettore una idea della portata di ciò che sto per dire esporrò senz'altro una delle conclusioni più sorprendenti a cui dovremo arri vare: l’ottica classica insegna a calcolare e a costruire una quantità di 17wma gini, date da certi strumenti ottici, come cannocchiali, microscopii, etc. Eb bene si può dimostrare che le figure viste da un osservatore, che guarda in que gli strumenti non sono, se non eccezionalmente, le immagini calcolate second: le regole dell’ottica geometrica. È una conclusione sconcertante, ma è indiscutibile. Se uno segue la di mostrazione che porta a questo risultato e dopo riesamina i ragionamenti cor cui si usa di solito presentare le cose nelle esposizioni classiche, rimane sor preso di avervi creduto.

Il modo di procedere è sempre il solito: si enuncia la legge della riflessione: sl applica agli specchi piani e si dimostra che i raggi partiti da un punto S lumi noso davanti a uno specchio piano, dopo riflessi divergono come se provenissero da un punto S° simmetrico di S rispetto alla superficie riflettente. Questo punto si chiama immagine di S data dallo specchio, la si qualifica per virtuale, e così senz'altro si pretende che essa s7a dietro lo specchio. Perché ?

Sembrerà strano a qualcuno che si domandi perché. Non è evidente ? Nor. è dimostrato dall’esperienza di ogni momento che dietro uno specchio ci son:




le immagini degli oggetti antistanti, e proprio in posizione simmetrica degli oggetti stessi rispetto alla superficie riflettente ?

No, non è dimostrato dall’esperienza di ogni momento e non è evidente. Non è neppure vero, tutto ciò. Perché solo una cosa è evidente e dimostrata dal l'esperienza di ogni momento e proprio che dietro lo specchio non c'è nulla che riguardi le immagini calcolate o costruite secondo la legge della riflessione. Se

S 4 VA / £ f 4 xi f £ 2 \ \ £ “LL > 4 ia eZ - 777 S” Cm n —_ n. n M Fic. 1. — Schema con cui si usa dimostrare l'andamento dei raggi e la formazione delle immagini mediante gli specchi piani. S è il punto che emette i raggi; MM è la sezione della superficie piana riflettente; S’ è il punto d’incontro dei prolungamenti all’in ‘ dietro dei raggi riflessi dallo specchio, punto che si chiama immagine virtuale di $, senza far alcun appello a un occhio che riceve i raggi riflessi. uno specchio è appeso a una parete, dietro lo specchio ci sono pietre e calcina e nessuna immagine. Ma se uno guarda in quello specchio vi vede dietro delle figure ?

Già; e proprio qui sta il nocciolo della questione; le figure dietro lo specchio ce le vede chi guarda, ce le vede l'osservatore, ma non ci sono. E se si elimina ogni osservatore, dietro lo specchio non ci rimane nulla. L’ottica classiva aveva fatto una specie di gioco di bussolotti, tacendo proprio il fatto più importante: che le figure dietro lo specchio ce le manda l’osservatore; e l'ottica, col su0 silenzio, aveva fatto credere che l’osservatore non fosse necessario e che le figure dietro lo specchio ci fossero anche senza l'osservatore. |

Tanto più che l'osservatore ce le manda, sì, le figure dietro lo specchio, ma ce le manda come vuole lui e non secondo le regole dell’ottica geometrica, perché non si può pretendere che tutti gli osservatori che guardano verso uno specchio abbiano studiato le leggi della riflessione. Difatti l’esperienza dimostra che non sempre la figura vista dietro uno specchio da un osservatore si trova nella posizione simmetrica dell’oggetto rispetto alla superficie riflettente: basta porre lo specchio ad almeno una diecina di metri sia dall'oggetto, sia dall’os




servatore per vedere che la figura vista dietro lo specchio è molto più vicina di quanto richiederebbe la regola classica.

Basta questo per mostrare subito che le cose non sono così semplici e sche matiche come vengono presentate di solito. Andando avanti vedremo che le cose si complicano ancora di più. Quello delle immagini per riflessione su uno specchio piano è addirittura il pezzo forte della costruzione dell’ottica classica; assai più criticabili sono i ragionamenti e le costruzioni nei casi seguenti.

Andando avanti, si dovrebbe parlare degli specchi sferici. Sarebbe molto

Bi \ K A” FA C L f> x H Fic. 2. - Un oggetto AB posto davanti a uno specchio concavo ne dà una immagine reale capovolta A4'B' sopra uno schermo HE; ma un occhio posto tra lo schemro e lo specchio e rivolto verso di questo, vede una figura diritta A4' B' poco dietro lo specchio. utile e interessante mostrare come a questo proposito si danno delle regole che permettono di calcolare la forma, le dimensioni e l'orientamento delle imma gini e si fanno anche delle esperienze per dimostrare che le cose vanno esatta mente come richiedono le regole stesse. Però si ricorre a un artificio : sî raccol gono le immagini sopra uno schermo. È le immagini che si possono raccogliere so pra uno schermo si chiamano realt.

Qualche lettore resterà sorpreso.a sentire chiamare artificio l’uso dello schermo; uso che di solito si fa così, semplicemente, ingenuamente, come se fosse la cosa più naturale e insignificante di questo mondo. Invece è tutt’altro che insignificante: se uno ripete le stesse osservazioni ed esperienze senza lo schermo, ma ricevendo direttamente i raggi negli occhi, non torna più nulla. Le figure viste non corrispondono più affatto alle immagini reali calcolate con le regole teoriche. Ma ciò si tace regolarmente e si evita di guardare senza schermo.

Le complicazioni vengono fuori quando si passa allo studio delle immagini virtuali date dagli specchi curvi, sia da quelli convessi (che danno soltanto im magini virtuali), sia da quelli concavi quando l’oggetto si trova fra lo specchio e il suo fuoco. Le immagini virtuali non si possono raccogliere su schermo: bi sogna vederle ad occhio, guardando verso lo specchio. Naturalmente il com portamento delle figure viste non corrisponde per niente a quello previsto dalle regole teoriche, salvo in un particolare: quelle date dagli specchi convessi sono Impiccolite e diritte; quelle date dagli specchi concavi (nelle condizioni suddette)




«7.0 pure diritte, ma ingrandite. E allora la conferma sperimentale si limita =zolarmente alla sola costatazione di questo comportamento, evitando, pure =zolarmente, ogni controllo numerico sulle distanze e sui rapporti d’ingrandi mento. Così non si rileva mai che, se l'oggetto si trova nel fuoco, l'immagine si 3:-rebbe vedere a distanza grandissima (si dice infinita, ma non pretendiamo troppo), mentre tutti gli osservatori che guardano in uno specchio concavo, nel zu fuoco si trova un oggetto qualsiasi, ne vedono una figura un po’ ingrandita e Îiritta poco al di là dello specchio. i È non si fa neppure rilevare che se l'oggetto si trova un po’ oltre il fuoco ‘mè distante dallo specchio un po’ più della sua distanza focale) l’immagine “icolata è reale e molto lontana dietro la testa dell’osservatore, mentre la fi «ira vista è ancora tranquillamente dietro lo specchio.

Con ciò l’accordo tra teoria e esperienza non si può dire ottimo. Non entro -. ulteriori particolari, per quanto interessanti, perché gli specchi curvi non “anno un grande interesse per 1 cultori della topografia. Ne ho fatto un cenno —.>%to rapido, tanto per mostrare, così di passaggio, quale piega prendono le ‘“se, se uno comincia ad andare un po’ a fondo nel controllare l'accordo tra le 7-zole dell’ottica classica e il decorso sperimentale dei fenomeni e come sia op zertuno non prendere per oro colato la « dimostrazione sperimentale » che si :3 delle regole stesse. Non si può assolutamente concludere che esse sono com p.etamente confermate dall’esperiénza.

Ma passiamo al caso, molto più interessante, delle lenti. Anche a questo zroposito si procede, di solito, in modo molto sbrigativo e con l’aria di dire delle ‘ose ormai definitive. Si applica senz'altro alle lenti la definizione di immagine reale data per gli specchi concavi e si dimostra che anche per queste vale la for mula fondamentale di Gauss, di solito espressa sotto la forma 1/x + 1/x° = 1/f, dove come è ben noto x è la distanza dell’oggetto dalla lente (sottile), x° è la di stanza fra la lente stessa e l'immagine calcolata, e f è la distanza focale. Si dà a formula dell’ingrandimento : y']y = — x°[x. E si passa alla verifica sperimen tale: utilizzando lo schermo. Si trova che tutto va a meraviglia con le immagini reali raccolte su schermo. Si evita di guardare direttamente ad occhio le im magini reali, e se lo si facesse si avrebbe una grossa delusione. Per le immagini virtuali date dalle lenti divergenti, e per quelle pure virtuali date da una lente :onvergente quando l'oggetto si trova tra essa e il suo fuoco, ci si limita a co statare che le prime sono impiccolite e diritte, e che le seconde sono ingrandite è diritte: proprio come richiede la teoria.

Ma anche qui, se per poco uno si mette a fare qualche controllo quantita :ivo trova che tutto va a rovescio. E ora è il caso di entrare un po’ nei partico ‘ari, perché le lenti convergenti vengono usate spesso, anche in topografia, co me «lenti d'ingrandimento ». E allora si pone la domanda: quanto ingrandisce una lente ? Da quali elementi dipende il s0 ingrandimento ? La risposta netta non è data da nessuno. Da qualche parte si fa un vago accenno alla formula di Gauss e alla ben nota regola: quando l’oggetto si trova fra la lente e il suo fuoco,




l'immagine è virtuale, diritta e ingrandita. Dunque in queste condizioni la lente convergente è una lente d’ingrandimento. ° Però tutti si guardano bene dallo spingere oltre l'indagine e di corredarla di elementi quantitativi. Si evita di far rilevare che:

I) l'ingrandimento definito dalla formula delle lenti non ha un valore de finito, ma assume tutti i valori da I (quando l'oggetto è a contatto con la lente) o TI -$ FiG. 3. — Di un oggetto posto fra una lente e il suo fuoco F, la lente dovrebbe darne una immagine virtuale diritta e ingrandita e più lontana dalla lente stessa; ma un occhio che guardi verso l'oggetto attraverso alla lente, ne vede una figura ingrandita nel pia no stesso dell’oggetto. a infinito (quando l'oggetto è nel fuoco); quindi qualunque lente convergente, di qualunque distanza focale dovrebbe dare qualunque ingrandimento fino al l'infinito (!); il che non si verifica assolutamente. 2) l’immagine calcolata secondo la formula di Gauss è sempre più lon tana ‘dalla lente (quando l’oggetto è fra la lente e il suo fuoco) che non l’oggetto, e quando l'oggetto si allontana dalla lente, per avvicinarsi al fuoco, l’immagine fà a a > ne | FIG. 4. — Se l'oggetto dista da una lente convergente un po’ più della distanza focale di questa, l’immagine calcolata è reale, ingrandita e capovolta, dalla parte opposta della lente. Ma un occhio che guardi verso l'oggetto, attraverso ad essa, vede una figura ingrandita e diritta nel piano stesso dell'oggetto. deve allontanarsi pure, molto di più per arrivare all’infinito; il che non si ve rifica assolutamente, perché tutti gli osservatori vedono la figura ingrandita nello stesso piano in cui si trova l'oggetto, cioè oggetto e figura vista sono equi distanti dalla lente. 3) quando l’oggetto si trova un po’ oltre il fuoco della lente, la sua imma gine calcolata con la formula di Gauss è reale e si trova dietro la testa dell’os servatore; questo invece vede ancora la figura ingrandita dell’oggetto al di là della lente, come se fosse virtuale.




4) il massimo ingrandimento dato da una lente convergente si osserva quando l’immagine reale dell'oggetto si forma sull’occhio dell’osservatore.

Peggio di così le cose non potrebbero andare.

Ma non basta. Negli ambienti tecnici, in cui le lenti si costruiscono e quin di si maneggiano, 1 discorsi precedenti non potevano trovar credito, perché la costatazione di ogni momento dimostrava che più corta è la distanza focale de.

Fic. 5. — Quando l’occhio si trova a tale distanza da una lente convergente che su di esso si forma l’immagine reale, capovolta e ingrandita dell’oggetto, l'osservatore ha l’im pressione dell’ingrandimento più forte ottenibile con tale lente, usata come lente d’ingrandimento. di una lente, più essa ingrandisce. Allora si è varata un'altra regola; si è defi nito cioè l'ingrandimento convenzionale G = 25/7, essendo 25 cm la distanza con venzionale della visione distinta e f la distanza focale misurata in cm.

A parte la considerazione generale che quando di un fenomeno si danno due regole diverse, una almeno è certamente sbagliata e non si può dire quale delle due sia quella giusta (perché se questo fosse detto, l’altra sarebbe scom parsa dalla circolazione), il fatto è che questa nuova regola (limitata al caso che l'oggetto si trovi nel piano focale della lente) è giustificata partendo da un'af fermazione del tutto gratuita: che la grandezza di un oggetto visto è propor zionale all'angolo sotto cui l'oggetto stesso è visto dall’occhio dell’osservatore. È vero questo ? Per dimostrare la verità si cita il fatto che più gli oggetti sono lontani, più si vedono piccoli. Ma al tempo stesso si tace il fatto che la re gola non vale affatto quando gli oggetti sono vicini all’osservatore. Infatti chi guarda un libro a 25 cm dall'occhio lo vede della stessa grandezza che se lo porta a 50 cmo a 100 cm dall’occhio stesso, mentre l’angolo diviene la metà o un quarto.

Ma, a parte l'attendibilità della dimostrazione, il fatto è che l’esperienza più elementare dimostra che la formula suddetta non dà elementi neppure gros solanamente approssimati: perché se uno adopera una lente di 25 cm di di stanza focale, ponendola, come la regola richiede, a 25 cm dall’oggetto, lo vede bene ingrandito, mentre la regola vorrebbe che l’ingrandimento fosse I, cioè che si vedesse come ad occhio nudo. Peggio ancora se la lente ha 50 o 100 cm di distanza focale: la formula pretenderebbe che l’osservatore vedesse impic colito fino alla metà o un quarto, mentre l’esperienza dimostra che, guardando attraverso a qualunque lente convergente anche di lunghissima distanza fo cale, si vede sempre ingrandito. Peggio di così le cose non potrebbero andare.






Per terminare questa critica sommaria circa la teoria delle lenti semplici. non posso passare sotto silenzio un altro caso particolarmente evidente. La teoria classica esige che l’immagine di un oggetto molto lontano si formi nel fuoco di una lente, sia essa positiva, sia negativa. Così se uno guarda una mon tagna attraverso ad una lente divergente, dovrebbe vederne una piccola im magine nel fuoco di questa. Se la sua distanza focale fosse di 1 m, la piccola mon tagnina sl dovrebbe vedere a un metro al di là della lente. Innumerevoli espe rienze da secoli hanno dimostrato che ciò non avviene mar. Tutti i miopi che guardano le montagne attraverso a lenti divergenti non ne vedono affatto la piccola immagine nel fuoco delle lenti stesse, ma vedono le montagne lontane, né più né meno come una persona che le guarda senza lenti.

Naturalmente, se le cose vanno così quando si guarda attraverso a una sola lente, non possono andar meglio quando si guarda attraverso a due o più lenti di seguito, cioè quando si guarda in un cannocchiale o in un microscopio.

La teoria del cannocchiale si espone di solito in poche parole: l’obbiettivo dà un'immagine dell'oggetto, immagine che è reale, impiccolita e rovesciata in una posizione molto vicina al fuoco dell’obbiettivo stesso, dato che l'oggetto sl trova assal lontano. L’oculare serve da lente d’ingrandimento per osservare comodamente questa immagine reale, cioè per vederla ingrandita e nitida. Naturalmente si suppone che il fuoco dell’oculare si trovi nel piano dell’imma gine reale data dall’obbiettivo, e così dà di questa un’ulteriore immagine vir tuale a distanza infinita. Tutto sembra chiaro ed esauriente.

Ma c’è da domandarsi come fa ad esser tutto chiaro ed esauriente se la abbiamo da che fare con una lente d’ingrandimento, la cui teoria, come si è accennato poco sopra, è tanto discutibile e insoddisfacente. Difatti ancora, a proposito del cannocchiale, si dice che tutto va bene, ma si evita ogni partico lare e si passa senz'altro a calcolare l'ingrandimento, che ora è un nuovo ingran dimento; non è né quello lineare dato dalle lenti, né quello convenzionale, cal colato per la lente d’ingrandimento, ma è l’ingrandimento angolare. Cioè si tro va che l’angolo g' sotto cui si vede l’immagine virtuale data dall’oculare è mag giore di quello o sotto cui si vede l'oggetto dal centro dell’obbiettivo, in un rap porto I espresso dal rapporto fra la distanza focale dell’obbiettivo /,, e quella dell’oculare /,;; 0 anche dal rapporto tra il diametro della pupilla d’entrata D e quello della pupilla d’uscita 4. Più precisamente:

I = tang g'/tang @ = fy/fy= DIA. E tacitamente, dal momento che si è parlato d’ingrandimento, si fa pensare che la figura vista nell’oculare sia / volte più grande di quella vista senza can nocchiale.

Però non si spiega come mai, essendo l’immagine virtuale data dall’ocu lare a distanza infinita, secondo la formula di Gauss, e quindi infinitamente grande, per la formula dell’ingrandimento delle lenti, l'ingrandimento di tutti 1 cannocchiali non sia infinito per tutti, ma dipenda invece dalle distanze fo




cali dell'obiettivo e dell’oculare. D'altra parte, non si dice mai dove si deve ve 3ere questa immagine virtuale. Si fa un vago accenno all'infinito e si passa avanti. E si finge di ignorare che quando un osservatore generico, ignorante del » cose dell’ottica, guarda in un cannocchiale, vede delle figure più vicine degli -getti corrispondenti e si pone la domanda: quante volte avvicina questo cannocchiale ?

Più preoccupante è un’altra osservazione: chiunque sl appresta a usare un cannocchiale, sa che deve spostare un po’ l’oculare avanti e indietro, per met _..(l << sr è ii, al | fac Fob | 6 fob i \/ Fob Foe I Fic. 6. — Quando in un cannocchiale, per la messa a fuoco, si sposta l’oculare, l’imma gine calcolata dovrebbe percorrere immensi tratti in profondità. Quando l’oculare è avvicinato all’obbiettivo (caso a) l’immagine dovrebbe esser vicinissima, perché i raggi emergono divergenti dall’oculare. Quando il fuoco Foce di questo coincide con quello Fo dell’obbiettivo (caso è) i raggi emergono paralleli, e quindi l’immagine calcolata dovrebbe essere a distanza infinita. Se poi l’oculare viene ulteriormente allontanato dall’obbiettivo, i raggi emergono convergenti e l'immagine calcolata do vrebbe essere addirittura reale (caso c). In pratica non si vede mai un decorso di tal genere, ma si vede una figura immobile in profondità, più o meno nitida a seconda della posizione dell’oculare. tere a punto lo strumento, cioè per vedere ben nitida l’immagine. Con ciò il fuoco dell’oculare stesso non coincide più con l’oggetto (ora costituito dall'im magine reale data dall’obbiettivo), quindi l’immagine finale, calcolata secondo la ben nota formula di Gauss, non si deve più trovare all'infinito, ma si deve avvicinare all’osservatore, quando l’oculare si avvicina all’obbiettivo, e deve addirittura diventare reale dietro la testa dell’osservatore stesso, quando invece l'oculare si allontana dall’obbiettivo. Siccome gli oculari hanno una distanza focale molto piccola, gli sposta menti che vengono loro impressi nella messa a punto, per quanto piccoli, sono sufficienti per provocare spostamenti enormi dell'immagine calcolata, special




mente quando il fuoco dell’oculare è vicinissimo all'immagine reale data dal l'obbiettivo. Ora l’esperienza di tutti i giorni di milioni di persone che adope rano cannocchiali e che li mettono a punto dimostra che non sz vede nulla di tutto ciò. Tutti gli osservatori vedono una figura fissa nel campo del cannoc chiale, ora più nitida ora meno, ma non vedono affatto nessun movimento in profondità. Il che equivale a dire che la figura vista non coincide mai con l’im magine calcolata.

Di conseguenza rimane del tutto insoluto il problema se il cannocchiale avvicina o ingrandisce e naturalmente anche quello di definire quanto avvicina o quanto ingrandisce.

Considerazioni del tutto affini si possono ripetere per ciò che riguarda il microscopio, con ulteriori complicazioni, perché l’ingrandimento calcolato per il microscopio è ancora diverso da quello calcolato per il cannocchiale. Ma sic come ciò non interessa molto i cultori della topografia, non credo utile spen dervi altre parole. *o* *k

Credo che le considerazioni esposte, per quanto sommarie e riassuntive, slano sufficienti a dimostrare che la teoria ottica classica non è poi quella rap presentazione perfetta dei fenomeni ottici che di solito si crede. Non mi dilun gherò ulteriormente nell’opera demolitrice, perché mi pare che non ve ne sia bisogno; credo invece più utile riassumere ora gli studi già fatti per individuare le origini della crisi dell’ottica classica e per costruire un’ottica nuova, più ade rente alla realtà.

Per comprendere bene la natura delle leggi dell’ottica finora adottate e quindi per giudicare il valore e l'attendibilità è stato molto utile uno studio a sfondo storico, cioè la ricostruzione della evoluzione delle idee ottiche nei secoli scorsi. È una ricostruzione molto interessante, perché dimostra quanto influsso hanno avuto le idee filosofiche generali dominanti nei varii periodi storici sullo sviluppo degli studi in tutti i campi, anche in quelli delle scienze cosiddette esatte, e perfino sulla tecnica. In generale gli studiosi di queste scienze e i tec nici ritengono di essere « obbiettivi » e superiori ad ogni « filosofia », ma purtrop po questa non è che una pia illusione.

La storia dell’ottica ne offre un esempio brillante. Se oggi ci troviamo per così dire conquistati ed accecati da una teoria ottica non troppo soddisfacente, lo si deve proprio all’influsso del positivismo che dal secolo xvII in poi ha per vaso tutto l'ambiente scientifico.

Non posso entrare in troppi particolari perché andremmo troppo per le lunghe; ma in poche parole posso riassumere la conclusione dell’indagine com piuta a questo proposito.

L'ottica vera, l'ottica cioè che intende spiegare come si vede sia ad occhio nudo, sia attraverso gli strumenti ottici, non è una scienza prettamente fisica. Si è creduto di farla diventare tale in un periodo in cui tutto doveva essere. fisico ad ogni costo.






Chi esamini a fondo il fenomeno della visione, giunge inevitabilmente alla »nclusione che vi è una parte fisica, consistente nella emissione di radiazioni ‘alle sorgenti o dai corpi illuminati, nella propagazione di queste radiazioni «Iso l’occhio dell’osservatore, e infine nella penetrazione delle radiazioni «tesse entro l’occhio fino a distribuirsi ordinatamente sulla retina; ma il feno “eno non finisce qui. Vi è tutto un processo fisico-chimico nella retina e a sua ‘*nclusione vi è una trasmissione nervosa dall’occhio al cervello, all’area cor zxcale destinata alle sensazioni visive; infine la conclusione del processo si ha ella psiche dell’osservatore, che rappresenta con figure luminose e colorate gli stimoli ricevuti e le localizza davanti agli occhi. Soltanto quando la psiche ha ‘ompletato la sua rappresentazione, l'osservatore dice che vede gli oggetti o le immagini.

P_ n - a) S . I e 2 DS b) S S si Fic. 7. — Sè un punto raggiante, in quanto emette raggi verso l'occhio. In generale si ri tiene certo che l'osservatore veda in S il punto luminoso e su questa ipotesi si basano i ragionamenti dell’ottica classica, che addirittura chiama S punto luminoso. Invece l’esperienza dimostra che in innumerevoli casi il punto raggiante S è ben lontano dal punto luminoso S’ (caso b) ossia l'osservatore vede una stella luminosa in un punto ben lontano da quello in cui si trova il vertice del cono di raggi che arrivano all’occhio.

Non vi è alcun dubbio, oggi, che il meccanismo della visione è costituito di queste tre fasi, di cui una sola è fisica, e le altre sono una fisiologica e una psicologica. E non vi è alcun dubbio che la conclusione di tutto il processo è proprio nella fase psicologica. Cioè tutte le figure che si vedono sono un feno meno psichico.

Tutto ciò non è piaciuto agli scienziati pervasi di. positivismo; e hanno ideato degli artifici abilissimi per eliminare ogni considerazione fisiopsicologica. E ci sono riusciti, ma naturalmente si sono riusciti soltanto sulla carta, perché in realtà non si può cambiare la natura delle cose. Tuttavia nei secoli xVII e xIX hanno trovato pieno credito coloro che parlavano di una «luce » esterna al i osservatore, di « colori » fisici e di immagini esistenti in se stesse, senza l’in cervento dell’osservatore. Si è arrivati a definire queste immagini mediante una ipotesi, che poi non si è più chiamata ipotesi e si è considerata una verità evi dente per se stessa: cioè è divenuta una ipotesi clandestina.

Questo punto debole dell’ottica classica è la regola seguente: « un occhio ve de un punto luminoso nel vertice del cono di raggi che arrivano alla cornea ». Questa è la base dell’ottica classica. Con ciò si è dimenticato che il punto lumai noso è la rappresentazione psichica di un oggetto puntiforme che invia raggi sul




l'occhio, e invece di chiamare furto raggiante il punto materiale che emette : raggi, e chiamare punto luminoso quello che vede l'osservatore, cioè la stellina creata dall’osservatore, si è chiamato punto luminoso il punto materiale, come se fossero necessariamente la stessa cosa. Con ciò si veniva a negare ogni indi pendenza della psiche e a dire che ogni psiche doveva vedere perfettamente sempre il punto luminoso nel punto raggiante. Il che non è assolutamente vero.

Certo che con questa ipotesi clandestina l'ottica è divenuta molto semplice. Si è per così dire cristallizzata l’attività psichica in una forma obbligata e si è proceduto come se la psiche fosse un automa perfetto. E così si è costruita tutta una teoria matematica ammirevole, che ci predice con estrema facilità e sicurezza che cosa deve vedere l'osservatore la cui psiche obbedisce alla re gola enunciata sopra. -

Ma purtroppo non esiste nessun osservatore la cui psiche si adatti a que sto funzionamento. Vi sono molte ragioni perché ciò non possa avvenire, e sono ragioni vitali. E perciò le regole dell’ottica dedotte dalla regola enunciata sono ‘ destinate inesorabilmente al fallimento quando si sottopongono al confronto con l’esperienza.

Nella critica esposta nelle pagine precedenti il lettore costaterà che le cose vanno a rovescio tutte le volte che si chiama un osservatore a guardare in una specchio o attraverso a una lente o attraverso a uno strumento ottico. La fun zione effettiva di questi dispositivi ottici è di modificare lo stimolo retineo, cioè l'immagine proiettata sul fondo dell’occhio; ma il risultato finale, cioè la figura vista, come è stata sempre chiamata quella creata dall’osservatore, è un feno meno psichico la cui struttura non può essere determinata esclusivamente dalle caratteristiche del sistema ottico.

L'ottica nuova è appunto una scienza che non si preoccupa più di esser in quadrata nel gruppo delle scienze fisiche, o in quelle di altra natura, ma si pro pone di sviscerare il più possibile lo studio dei fenomeni ottici, qualunque sia la loro natura. Si tratta cioè di studiare come si fa a vedere, sia direttamente, sia per mezzo di strumenti ottici, e ciò senza preconcetti filosofici. Di fronte all’ottica nuova quella classica ha assunto il valore di uno studio schematico, provvisorio. preliminare, che deve esser completato con ulteriori considerazioni fondamen tali per essere utilizzato per la rappresentazione dei fenomeni ottici naturali. ok *

A questo punto molti lettori si domanderanno: Quali sono le conseguenze di questa indagine ? Perché se tutto dovesse restare come prima, non si ve drebbe nessun bisogno di declassare una scienza che ha al suo attivo delle benemerenze indiscutibili e di complicarla con sovrastrutture eterogenee. Do potutto bisogna pur riconoscere che l’ottica classica ha permesso di calcolare | e costruire strumenti preziosi, che hanno funzionato magnificamente. È questo un ragionamento che è stato ripetuto molte volte nel corso della storia della scienza. Ma non è del tutto giusto, anche se per il momento la nuova




| 15 ‘tica non portasse dei vantaggi rispetto a quella classica. È indiscutibile che ni scienza ha lo scopo, oltre quello generale di far conoscere il meglio possibile mondo, e le sue leggi, di promuovere il progresso. Più una scienza è realistica, «aglio assolve questo suo compito. In generale è avvenuto che ogni scienza, per «completa e provvisoria che fosse, ha dato il suo contributo, e quando la sua ‘-vondità è risultata esaurita, è stata sostituita con una nuova scienza più com “leta e più aderente alla realtà.

Questo passo si sta compiendo oggi sostituendo l'ottica classica con quella JOVA.

Bisogna pol guardare con meno entusiasmo al contributo che la ottica :sassica ha dato al progresso degli strumenti ottici. Non vi è dubbio che sono «tati costruiti strumenti eccellenti, che hanno fornito servigi preziosi; ma quan ‘> si va a definire il contributo che effettivamente vi ha portato la scienza ot ica classica, la nostra ammirazione per la scienza stessa si attenua alquanto. Zsaminandolo serenamente, il contributo di tale scienza era soltanto promotore, a era lasciata all'esperienza la funzione di definire la forma e la struttura mi
L’ottica nuova invece dice molto di più; dice che la regola classica non va dene e che bisogna sostituirla con un'altra che tenga conto del fatto che la fi cura vista dall’osservatore verrà localizzata nel piano stesso dell'oggetto. Non - una regola generale e assoluta, perché evidentemente non può essere appli ‘ata quando l’osservatore si trova in condizioni di non conoscere la posizione lell’oggetto; ma quando questa posizione è conosciuta, è oggi possibile co «truire una lente d'ingrandimento che faccia vedere ad un osservatore una figura :ngrandita un numero prestabilito di volte, definendo anche la posizione in “ui deve trovarsi la lente e l'occhio rispetto all'oggetto.

Non sarà questa una conquista di grandissimo valore pratico, perché anche senza l’ottica nuova uno poteva scegliersi la lente d'ingrandimento che faceva al caso suo; ma il fatto notevole è che oggi, sia pure ricorrendo a consi derazioni psicologiche, si ha una regola per risolvere un problema che prima era lasciato esclusivamente ai tentativi dell’utente.

Ma non si tratta soltanto di questo. Le conseguenze dell'ottica nuova vanno molto lontano e ogni giorno di più se ne apprezza la fecondità. In linea generale si può dire che è cambiata l'impostazione di ogni problema ottico.

Nel passato il modo di ragionare si poteva riassumere nello schema seguen te: quando si è calcolato un sistema ottico, e se ne sono calcolate le immagini, il problema è sostanzialmente risolto: leimmagini così calcolate, in modo che se ne conoscono la forma, le dimensioni, la posizione e la struttura, costituiscono la verità. Il passare poi all'esecuzione e alla prova sperimentale è una operazione di secondaria importanza; è quella che si chiama un’operazione tecnica, che




può esser fatta bene o male a seconda dell’abilità dell’operatore. I casi sono du: se la prova sperimentale riesce conforme alle previsioni, l'operatore ha lav.- rato bene e, naturalmente, la teoria risulta confermata; se al contrario 1 rist_- tati sperimentali non collimano con quelli previsti dal calcolo, la colpa è de.- l'operatore o del materiale usato e non ha valore: si deve ripetere la prov: cambiando materiale, modo di procedere ed eventualmente anche l’operatcre in modo che il risultato sia conforme alle previsioni teoriche.

Questo modo di ragionare non era esplicito, ma era generale. Oggi inver nell’ambito dell’ottica nuova, le posizioni sono invertite. Il calcolo è soltan:. un'operazione preliminare, necessariamente imperfetta e parziale, perché n4. calcolo non sl possono introdurre (e difatti finora non vi si introducevan tutti 1 fattori realmente operanti in pratica. Il problema scientifico (e non tec - co) è proprio quello di determinare quali condizioni bisogna predisporre perc? nella prova pratica sì ottengano determinati risultati. Quelli che contano n. - sono i dati calcolati; sono i risultati ottenuti nella esecuzione pratica dei prove. Essi non debbono essere lasciati in balia di un'abilità tecnica indefini:: di un operatore indefinito. Il fare così significa rinunziare ad un procedimen: razionale, ossia scientifico, per abbandonarsi ad un modestissimo empirism È proprio compito del ricercatore scientifico di determinare quali mezzi e qua. procedimenti impiegare per ottenere il risultato desiderato, o almeno il risv.- tato migliore oggi possibile, cioè il più prossimo a quello desiderato.

Poste le cose in questi termini, il problema ha cambiato natura: prima er: un problema matematico, nettamente teorico: si trattava di applicare a cas particolari delle leggi ormai indiscutibili, e sl affidava la riuscita effettiva de. lavoro alla « praticaccia » dei realizzatori. Oggi invece si tratta di studiare &.- spositivi e materiali e operazioni in modo da ottenere nel modo migliore e c massimo di sicurezza un effetto definito; e questo è un problema nettamen: fisico.

Ciò ha condotto a una classificazione nuova delle 1agini.

Nell'ottica classica esisteva soltanto l’immagine, fosse essa reale o virtual. essa era quella calcolata (oppure costruita geometricamente). Come ho dett. essa era tutto: era la verità. Se uno usava l’occhio per vedere quella immagin doveva vederla come era stata calcolata, altrimenti era un osservatore inabile: da scartarsi; se usava la lastra fotografica per fotografarla, doveva ottenere ur.. fotografia con tutte le particolarità di quella immagine, altrimenti come fot:- grafo non valeva nulla e doveva esser sostituito; poteva anche usare dei rice:- tori fotoelettrici, ma i risultati dovevano corrispondere esattamente alle cara:- teristiche dell'immagine calcolata, altrimenti il sistema non poteva conside rarsi utilizzabile.

Di conseguenza la figura vista ad occhio (almeno quando era conforme al previsioni) doveva essere uguale alla ripresa fotografica, alla registrazione fo toelettrica, perché tutte queste rivelazioni, quando meritavano tale nome, no: erano altro che l’immagine calcolata.

Oggi questo ragionamento ha perso significato ed appare quasi grottesc






L'immagine calcolata dovrebbe rappresentare l’immagine che si forma nel ere, e che perciò si chiama immagine eterea ; ma questa è un'entità ipotetica, fterrabile, proprio come il presunto etere in cui si dovrebbe formare. La “*:magine calcolata è appena una schematizzazione dell'immagine eterea. Per - pere come è questa immagine eterea bisogna rivelarla, e quando la si rivela si . un risultato che risente in modo determinante delle caratteristiche del ri latore.

I rivelatori principali sono tre, e ciascuno dà la sua immagine. Il più an ano e più importante è l'occhio umano; l’immagine eterea si trasforma nel ‘mmagine retinea, e dopo il processo fisiopsicologico della visione, si conclude ‘ol fantasma luminoso e colorato che costituisce la figura vista, localizzata da inti all’osservatore.

Si ha poi la emulsione fotografica; l’immagine eterea produce delle alte “azioni in uno strato di gelatina in culi sono emulsionati certi sali d’argento o ‘fini, e dopo il processo di sviluppo e di fissaggio si ha un amnerimento varia -ile nelle varie zone della lastra. È questa l’immagine fotografica.

Se si impiega una cella fotoelettrica, con dispositivi di registrazione, si :terranno dei diagrammi che costituiscono la cosiddetta #nmagine fotoelettrica.

Abbiamo dunque davanti a noi cinque immagini diverse; sostanzialmente verse: l’immagine calcolata, che è di natura matematica; l’immagine eterea, ipotetica, di natura fisica; l’immagine rivelata dall’occhio, fantasma di natura psichica; l’immagine fotografica, costituita da una distribuzione di annerimenti, di natura fisica; l'immagine fotoelettrica, costituita da una distribuzione di correnti elet ‘riche, pure di natura fisica.

Non ha più senso dire che si fotografa quello che si vede, e tanto meno che “i vede e sì fotografa o si registra fotoelettricamente l’immagine calcolata. Il problema base è di ricostruire il meglio possibile e fin dove è possibile la strut “ura dell'immagine eterea, attraverso i risultati ottenuti mediante le imma
Ma per risalire dalla struttura dell'immagine rivelata a quella dell’imma zine eterea, non bisogna presumere che esse siano eguali, il che non soltanto non è vero, ma non ha neppure senso filosoficamente parlando. Il fatto è che il meccanismo rivelatore influisce in modo tutt'altro che trascurabile sulla struttura dell'immagine rivelata e per ricostruire l’immagine eterea è necessa rio conoscere in qual modo il rivelatore funziona e come risponde agli stimoli energetici di varia intensità e distribuzione.

Questo studio è oggi in pieno sviluppo e più procede avanti, più dà risul tati utili e interessanti: le risposte dei varii rivelatori non sono mai lineari, e durante tutti i processi che portano alla immagine finale si hanno tante di quelle distorsioni che quasi c'è da meravigliarsi che alla fine si ottenga ancora qualche cosa utilizzabile ai fini che ci siamo proposti, cioè di ricostruire la struttura del




l’immagine eterea. Per questo si è dovuto concludere che questa immagine è ipc tetica e che la sua vera struttura in tutti i particolari non si potrà mai definire

Questo modo di ragionare ha demolito un’altra prassi molto comune iz passato: la sostituzione spontanea e naturale della fotografia, alla visione e la sostituzione dei procedimenti fotoelettrici a quelli visuali o fotografici. Le tr: operazioni sono nettamente distinte. Tanto distinte che oggi la fotografia e la fotoelettricità non sono più da considerarsi capitoli dell’ottzca, ma sono da cor siderarsi scienze sorelle: come l’ottica è la scienza che studia come si fa a rive lare le immagini eteree mediante l’occhio e il meccanismo della visione, la fc tografia studia come si rivelano le immagini eteree mediante le emulsioni ser sibili; e la fotoelettricità, mediante le celle fotoelettriche.

Con ciò non si è data soltanto una classificazione nuova. Non che quest; non conti, praticamente, perché quando le idee sono chiare sono anche bene ordinate e viceversa; ma al nuovo assestamento teorico fanno seguito rifless pratici di grande rilievo. È ben noto che lo scopo dei costruttori e degli operatori, cioè di coloro che sono a contatto diretto con la pratica, è di ottenere strumenti e procediment: che danno immagini buone, se non addirittura ottime. In passato, dal moment: che le sole immagini prese sul serio erano quelle calcolate, tutto lo sforzo scien tifico era concentrato su di esse: tutto il problema consisteva nel calcolare e pr gettare strumenti che dessero ‘mmagini calcolate buone. Il resto, come si è dette era lasciato all’abilità dei realizzatori e degli operatori. Oggi invece il problemi scientifico è di ottenere immagini rivelate buone. Quindi si tratta di definire anzitutto quale tipo di immagine rivelata ve gliamo ottenere, se visuale, fotografica o fotoelettrica; e una volta scelto il tipc sì tratta di definire tutto il complesso di condizioni fisiche, cioè pratiche, che portano il più sicuramente possibile al risultato.

L'importanza di questo nuovo indirizzo non sta soltanto nel fatto che =:. è allargato il campo d’indagine, ma soprattutto sul fatto che la scelta delle cor dizioni di impiego e di lavoro influisce anche sul calcolo e sul progetto che por ta a definire l'immagine calcolata. Non è più vero che qualunque sistema otticc che dia una immagine calcolata ottima debba essere sempre ottimo. E perfin: si può giungere alla conclusione che è preferibile all’atto pratico un sistema ot tico che non dà la migliore immagine calcolata, ma dà una migliore immagin: rivelata.

Molte delle conclusioni che seguono da questo ragionamento erano gia note, perché l’'empirismo e la pratica dei realizzatori e degli operatori le ave vano già indicate, anche se non previste o considerate dalla teoria. L’ho gie accennato poco sopra, quando si è avanzata la considerazione che in fin de: conti la teoria classica aveva portato a degli strumenti utili che avevano fun zionato egregiamente. Chi esamini a fondo l’apporto della teoria deve conclu dere che esso è stato ben modesto di fronte a quello apportato dall’esperienza

Il nuovo indirizzo invece vuol prendere in considerazione il più possibile 1 fattori capaci di portare a immagini rivelate buone. Ed ecco perché occorre




‘onsiderare separatamente le tre scienze sorelle ottica, fotografia e fotoelettri ‘ità: perché i fattori da prendere in considerazione sono tanti e così complessi, ‘he ogni gruppo deve essere sviscerato da specialisti profondamente compe :enti nel loro ramo.

Le conseguenze, come ho detto, di questo nuovo indirizzo sono veramente notevoli. La più importante è stata l'inserzione nello studio del fenomeno di ‘n nuovo fattore, finora sì può dire completamente trascurato dalla teoria, anche se la pratica ne dimostrava ogni momento la grande importanza: la znergia dispombile. Oggi si parla addirittura di ottica energetica, mentre nell’ot zica classica l'energia non era mai assolutamente considerata.

Chi calcolava un obbiettivo ne studiava la forma e la composizione, senza Treoccuparsi minimamente se doveva funzionare con molta energia o con poca: “ana volta ottenuta una immagine calcolata ottima, il problema era otticamente chiuso. Vi era anche il problema della luminosità, ma esso era considerato a rarte, come indipendente da quello della bontà della immagine. Oggi invece si sa che l’immagine rivelata dipende al tempo stesso dalla forma e dall’energia; cosicché un sistema ottico può essere ottimo in certe condizioni di lavoro e ad Jirittura inutilizzabile in altre condizioni.

Cioè non si più può parlare di strumento buono, anche se calcolato e rea ‘lizzato nel migliore dei modi; ma si può parlare di strumento buono in certe con dizioni, in relazione all'energia disponibile e alle caratteristiche del rivelatore. Ciò ha portato a giudicare tante volte preferibili degli strumenti che erano stati addirittura scartati di fronte ad altri ritenuti ottimi, ma all’atto pratico risul tati meno produttivi.

Un esempio tipico delle conseguenze del nuovo modo di ragionare si ha dal nuovo modo di considerare il potere risolutivo di un sistema ottico.

Il modo di ragionare classico è ben noto: un obbiettivo, ad esempio, do veva avere un certo potere risolutivo s40, cioè caratteristico delle sue dimensioni e della sua struttura.

Addirittura sl parlava di potere risolutivo teorico, come di un massimo insu perabile per effetto della natura ondulatoria della radiazione impiegata. Si parlava anche di potere risolutivo effettivo, pratico di un obbiettivo, sempre però caratteristico dell’obbiettivo stesso, in conseguenza non soltanto delle sue di mensioni, ma anche della bontà della sua realizzazione pratica. Per quanto da oltre mezzo secolo si sia parlato di queste cose, un metodo per misurare sicu ramente e inequivocabilmente 11 potere risolutivo di un obbiettivo non è stato ancora trovato.

Oggi il problema sì guarda sotto un aspetto ben diverso. Si può ancora parlare di potere risolutivo di un obbiettivo in via teorica, astratta, convenzio nale, riferendoci alla struttura dell’immagine calcolata, e stabilendo der conven zione un criterio di risoluzione, come la ben nota regola di Lord Rayleigh. Ma tutti questi sono discorsi utilissimi, se si vuole, per studii e confronti teorici, ma del tutto privi di contenuto pratico. Perché evidentemente la pratica cerca la risoluzione nelle immagini rivelate e allora il problema assume una impo




stazione assolutamente diversa. Risolvere in una immagine rivelata significa ottenere effetti sensibilmente diversi in regioni adiacenti, in modo da non avere un risultato uniforme, ma frazionato. Ebbene la diversità degli effett dipende da tanti fattori, di cui il più importante è proprio l'energia disponibile, in rela zione alle caratteristiche sensitive del rivelatore.

Perché se l'energia che arriva sul rivelatore è così scarsa che non produce nessun effetto, è chiaro che il risultato è uniforme e non si può avere risoluzione, anche se l’immagine eterea è ottima e particolareggiatissima. Come è ben noto ogni rivelatore ha una soglia assoluta di sensibilità e quando lo stimolo è al di sotto di questa soglia non produce alcun effetto. Ma ogni rivelatore ha anche un limite di saturazione, al di sopra del quale l’effetto di ogni stimolo è invariabile: dunque anche se l'energia che raggiunge il rivelatore è eccessiva, si ha un ef fetto uniforme e quindi non si risolve nulla. La risoluzione sull’immagine ri velata è strettamente legata ad una distribuzione di energia accuratamente dosata, in relazione alle caratteristiche del rivelatore.

Così può avvenire che uno stesso sistema ottico di fronte ad un certo og getto che irradia una certa quantità di radiazione dia un'ottima risoluzione so pra un rivelatore e ne dia una mediocre, se non addirittura nulla, sopra un altro.

Dunque il potere risolutivo pratico, quello che si può misurare, non è caratteristico dell’obbiettivo o dello strumento, ma è una funzione comples sa di tre elementi; l’energia emessa dall'oggetto, la distribuzione di questa energia da parte del sistema ottico, e infine le caratteristiche sensitive del ri velatore. wo sk i i

L'esposizione degli indirizzi dominanti dell’ottica nuova, per quanto con tenuta nei limiti più ristretti che ci è stato possibile, dovrebbe essere stata suffi ciente per giustificare la critica dell'ottica classica con cui abbiamo cominciato la nostra indagine. Non vi è niente di strano, ora, nel fatto che le figure viste quando la radiazione va direttamente dal sistema ottico in un occhio (o anche in una coppia di occhi) siano tanto diverse da quelle registrate sopra una lastra fotografica o analizzate mediante una cella fotoelettrica.

Ma oltre a ciò vorrei ora spender qualche parola per mostrare al lettore che ha avuto la costanza di seguire il ragionamento fino a questo punto, che non ha perduto il suo tempo. Anche se è un cultore della tecnica topografica, a cui, più che l’assestamento della scienza ottica, interessano le sue applicazioni nel rile vamento del terreno e nelle operazioni connesse con questa.

Intanto conviene distinguere decisamente la strumentazione destinata a funzionare mediante l’osservazione ad occhio, da quella che utilizza le emulsioni sensibili.

La strumentazione visuale usa prevalentemente cannocchiali provvisti di micrometro distanziometrico; utilizza anche altri accessori, come microscopii di lettura, lenti d'ingrandimento, etc., ma il pezzo forte è costituito dal can nocchiale con cui si punta la graduazione della stadia.






Ora, non c'è da pretendere che l'ottica nuova porti una rivoluzione in que campo, per il semplice fatto che il cannocchiale degli strumenti topografici il frutto non della teoria, ma dell'esperienza di tanti secoli e di milioni di «perimenti e tentativi, di cui sopravvivono soltanto quelli che hanno dato i “—sultati migliori.

Chi oggi si accinge a progettare un cannocchiale parte da considerazioni olto diverse da quelle che guidavano chi compiva la stessa operazione tren anni fa: non per niente in questo periodo gli strumenti topografici hanno su ‘to cambiamenti sostanziali, aumentando decisamente la loro praticità e il ‘*ndimento e l'economia di esercizio. Non credo di affrontare ora la discussione . quest'argomento, ché ci porterebbe troppo lontano.

Ritengo che debba interessare un numero ben maggiore di lettori qualche jnsiderazione relativa all'impiego di uno strumento topografico.

Si deve considerare tramontata la valutazione assoluta dello strumento. —condo quello che si è detto poco sopra, uno strumento è buono per un certo “servatore che opera in certe condizioni di ambiente, ossia di energia. Il can - xchiale non è più lo strumento che dava certe immagini, con un dato potere —solutivo; ma è un dispositivo che aumenta la capacità dell’occhio dell’or «:rvatore. Il risultato dipende dunque delle condizioni in cui si lavora, dalle ‘alità dello strumento e dalle facoltà dell’osservatore.

In parole povere, la precisione delle misure fatte con uno strumento di ‘ende dalla luminosità delle figure che si vedono, dalla bontà costruttiva ‘2Ilo strumento e dalle condizioni in cui si trova l’occhio dell’osservatore, sia “#1 costituzione, sia per addestramento, sia per stanchezza o distrazione. Per ‘vanto tutto ciò sia ben noto a chi lavora in campagna, non si può dire che ne «sa stato tenuto il debito conto dal punto di vista ottico.

Quando questi concetti saranno divenuti di uso generale, si arriverà a co -:ruire lo strumento su misura, come si fanno le scarpe e i vestiti; perché sì ot ‘-rranno risultati molto migliori quando si sceglierà per ogni osservatore l’in
Non si deve chiedere tutto allo strumento, perché lo strumento non può are tutto: il più è dato dall'uomo. Chi ragiona così non si meraviglia più che al tempo dei romani si siano fatte delle livellazioni che sarebbero ardue anche coi migliori strumenti di oggi, e ciò senza che l’operatore sia passato alla storia.

Si può concludere questo gruppo di considerazioni osservando che se un operatore non raggiunge la precisione e il rendimento di altri colleghi, se ne deve cercare la ragione nel fatto che lo strumento impiegato non è adatto per i suol occhi.






D'altra parte, quando l'operazione di puntamento non è stata più conside rata una semplice operazione geometrica, ma ne è stata studiata la natura ener getica e sl è indagato il meccanismo secondo il quale la retina dell’occhio agisce al riguardo, si sono ottenuti progressi sorprendenti. L'indagine è recente e non è ancora conclusa. C'è da aspettarsi che si raggiungano perfezionamenti stru mentali insospettati finora.

Nel campo delle operazioni fotografiche, di cui oggi tanto si avvalgono la fotogrammetria e l’aerofotogrammetria, le direttive dell’ottica nuova trovano pure larga applicazione. Per quanto la fotografia non si debba più considerare ottica, come è stato detto, ma una scienza sorella dell’ottica, pure molte delle considerazioni che valgono per l’una si possono estendere all’altra. |

Particolarmente interessante sono quelle relative al potere risolutivo. Come .è noto, la determinazione del potere risolutivo degli apparecchi di ripresa foto grafica è oggetto di studio da parte di commissioni internazionali che lavorare da anni e ancora non hanno raggiunto conclusioni soddisfacenti. L’ottica nuova spiega subito questo insuccesso: non si può trovare ciò che non esiste; cioè ncz sì può trovare il potere risolutivo di un obbiettivo fotografico, perché è una ca ratteristica che praticamente non esiste. Esiste la risoluzione sopra una deter minata emulsione, da parte di un obbiettivo che ha lavorato con una data espe sizione di fronte a un oggetto dotato di una data luminosità e di un dato cor.- trasto. Un insieme di condizioni difficilissimo a definirsi, specialmente se pa vi sì aggiunge l'influsso dello sviluppo e del fissaggio. Ma la natura delle cose è questa e tutt'al più si può pensare di semplificare il problema ricorrendo a delle convenzioni o a delle unificazioni o a dei metodi statistici.

Per altro tutto ciò è molto discutibile, perché finirebbe col frenare il pri gresso: unificare ad esempio l’emulsione con cui operare porterebbe a rinur.- ziare ai perfezionamenti che i produttori di lastre fotografiche possono ancor: apportare alla finezza delle emulsioni stesse.

D'altra parte è assurdo che si continui a lavorare nella ricerca di una ca ratteristica che teoricamente non esiste. ox

Con questi cenni chiudo la rassegna sommaria che mi ero proposto di pre sentare ai cultori della topografia. Per quanto mi sia dilungato, non ho potut. dare che un breve cenno dei diversi argomenti trattati. Chi vi trova interes= può approfondire lo studio nella letteratura, ormai già assai vasta, che tratta . fondo le varie questioni.

Sì deve riconoscere che oggi l’ottica si sta liberando di una sovrastruttur troppo schematica a carattere matematico per avviarsi ad una conoscenza pi: realistica dei fenomeni naturali. Chi si renderà padrone del nuovo indirizzo, n trarrà indiscutibilmente beneficio.

BIBLIOGRAFIA V. RoncHI — Storia della luce — Bologna, Zanichelli, 1952 (seconda edizione). V. RONCHI — L’ottica, scienza della visione — Bologna, Zanichelli, 1955.